«Il mio uomo dei traslochi ha un volto e anche un’anima»: intervista a Enrico Ruggeri
L'associazione.di Pietro Andrea Annicelli
L’uomo dei traslochi, per la sensibilità emozionante con cui descrive un lavoro che molti spesso fraintendono e misconoscono, ha smosso il cuore dei traslocatori italiani. È la ragione per cui Anit Federtraslochi ha voluto dare il titolo di questa canzone all’imminente convegno che ha organizzato a Roma. Enrico Ruggeri non è nuovo a cogliere, nella sua poetica, importanti aspetti del lavoro quotidiano.
Qual è stato il suo processo creativo?
«A me piace cercare di raccontare le anime attraverso dei dettagli apparentemente marginali. Ho parlato di guerra narrando la lettera d’un soldato, di amori impossibili descrivendo la vita d’un portiere di notte. Pensando al trasloco, mi sono accorto che, dopo gli abbandoni, i divorzi e i lutti, è una delle principali ragioni di stress per una persona. Nel trasloco ci sono tante cose sia che si tratti d’un appartamento di ottanta metri quadri, sia d’un attico di qualche centinaio. Ci sono anche dei momenti dolorosi perché vedi portar via delle cose appartenute a delle persone care che non ci sono più. Un trasloco, per me, è la metafora del ricordo: il presente che incontra il futuro. Quindi, ne L’uomo dei traslochi, ho immaginato questa persona che ha la forte responsabilità di spostare la vita di qualcuno, un’immagine per me molto suggestiva. L’uomo dei traslochi, per molti, sembra non avere volto. Invece ce l’ha e ha anche un’anima. Si trova, anzi, dentro un turbine emozionale. Questo, per me, significa raccontare le storie attraverso lo sguardo da spettatore: uno che le sta osservando e non vivendo. Si tratta, come è noto, d’un artificio stilistico letterario abbastanza comune».
Lei ha traslocato molto?
«Abbastanza. Provo a fare i conti: sette volte, e non sono poche. Sempre a Milano. I primi traslochi li ho vissuti da bambino. C’era la curiosità nel rovistare tra le vecchie cose di famiglia, il passato che non avevo conosciuto. Poi ho vissuto con mia madre prima di andare a vivere da solo. Quando lo feci, c’era l’eccitazione di questa prospettiva e del dover scegliere che cosa portare con me: un’eccitazione mista alla sensazione d’un salto nel vuoto. Ho ancora traslocato da scapolo e poi l’ho fatto da sposato. Ho ulteriormente traslocato quando c’è stata la mia separazione. Un doppio trauma: la separazione e il trasloco. A ciò si aggiungono gli svuotamenti delle case di persone a me care: mia madre, le mie zie. Decidere che cosa lasciare e che cosa buttare via, trovare oggetti che per loro erano importanti e dei quali dispiace sbarazzarsi perché erano restati intatti per cinquant’anni».
Ha potuto farsi un’idea dei traslochi e dei traslocatori anche in altre circostanze?
«Si: osservando i traslochi dei miei amici. In quei casi, per me, tutto è stato meno traumatico. Si rispetta però il travaglio dell’altra persona e si cerca di dare dei consigli: questo oggetto mettiamolo in salotto, quest’altro non serve e si potrebbe dare via. In queste circostanze, tutte le emozioni descritte nella canzone le provi e incominci a immedesimarti nell’uomo dei traslochi»
Come si potrebbe definirlo in estrema sintesi?
«Con due parole chiave: delicatezza e rispetto».
(L’immagine di Enrico Ruggieri è tratta dal suo sito per sua gentile concessione. Si ringrazia Stefania Alati per la cortese collaborazione).